
Ferite a morte
Ferite a morte, di Serena Dandini.
Teatro Comunale di Vicenza, 14 novembre 2015, interpretato da Lella Costa, Orsetta de’Rossi, Rita Pelusio.
E. Marchiori, R. Riolo
“Avevamo il mostro in casa e non ce ne eravamo accorte … Avevamo il mostro in casa e non ce ne eravamo accorte … Avevamo il mostro in casa e non ce ne eravamo accorte!!! E non se ne era accorto neanche lui, mio marito, che il mostro ce l’aveva dentro”.
È questo l’incipit del monologo di Lella Costa che apre lo spettacolo “Ferite a morte”, in cui l’attrice, con le colleghe Orsetta de’ Rossi e Rita Pelusio, si sono alternate sul palco del Teatro Comunale di Vicenza, a dare corpo a voci di donne ascoltate troppo tardi o mai, uccise per mano di uomini cui erano legate, che tornano tra i vivi per raccontare finalmente le loro storie. Tante altre bravissime attrici, come loro, hanno portato in giro per l’Italia questo spettacolo necessario.
Storie di cronaca vera e nera ma, in primis, storie di donne vere, normali, vestite a lutto come s’addice alla situazione, ma con scarpe rosso sangue, a ricordarci la violenza inumana di cui son state vittime. Una Spoon River delle donne morte per femminicidio, dove, come ha dichiarato l’ideatrice Serena Dandini, “ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti non è affatto casuale”.
Un’opera recentemente premiata come Miglior Evento No Profit / Sociale / Csr dell’anno alla 12ª edizione del BEA – Best Event Awards- prodotto da MISMANODA.
Per Serena Dandini e Maura Misiti, ricercatrice del CNR, è stato ineludibile restituire uno spazio e un tempo a queste donne, simbolo di tutte le vittime, a seguito della diffusione dei dati impressionanti sul femminicidio riportati dal primo studio sull’argomento diffuso delle Nazioni Unite: quasi cinquantamila all’anno in oltre cento Paesi. Due al giorno solo in Italia.
Con ironia e vivacità, si muovono e parlano sul palcoscenico donne uccise per mano di uomo, spesso il proprio uomo, quello scelto perché “mi faceva sentire protetta”, “perché ci teneva a me”, “perché il primo pugno me lo meritavo … avevo lasciato la cipolla nel sugo e lui non la digerisce poveretto”. Oppure lapidate da una folla di uomini, come l’iraniana, interpretata con tenerezza e compostezza incredibile da Rita Pelusio, “perché ho incontrato l’uomo dagli occhi di gatto”, tradendo il marito più anziano di lei di quarant’anni, scelto dalla famiglia, o la preadolescente morta di emorragia durante l’infibulazione praticata dalla nonna, senza subire la quale non si sarebbe potuta sposare, che Orsetta de Rossi incarna in modo struggente. Ci sono tutte, le donne, senza distinzione di razza, di religione, di stato sociale, di cultura, di età, di aspetto.
Uno spettacolo intenso che non gioca mai la carta del vittimismo, ma cerca di mettere in luce tutti gli aspetti collusivi e confusivi delle relazioni che portano a queste tragiche conclusioni, in cui le donne risultano incapaci di proteggersi e di comprendere la realtà.
Ed evidenzia la cecità di tradizioni culturali e religiose primitive così radicate che non offrono spiragli di cambiamento.
A volte la mancanza di indulgenza verso le donne, seppure uccise senza pietà, può addirittura lasciare lo spettatore perplesso: ma allora la “donna stronza” come rappresentata in modo magistrale dalla Lella Costa, può essere uccisa? Se lo meriterebbe davvero? È proprio il gioco su questo registro paradossale, alla fine, a centrare il segno e a far comprendere che nessuna giustificazione è ammissibile, che è con la parola e il pensiero che si combatte l’idiozia e, spesso, la patologia, della furia assassina.
Sono donne morte spesso per non essere riuscite a riconoscere l’affiorare degli aspetti illusori della relazione con il maschile e non essere state, quindi, in grado di affrontare le proprie fragilità chiedendo l’aiuto di altre donne e di enti e istituzioni dedicate a loro.
Uno spettacolo che offre allo spettatore informazioni vere e chiare, a volte molto crude, per comprendere che tutto ciò era ed è evitabile, era ed è prevenibile, solo se, in primo luogo, è riconoscibile e riconosciuto, non solo dalle donne e, generalmente, dal contesto socio-culturale.
È necessaria una educazione agli affetti e alle relazioni interpersonali e di coppia sin dall’inizio della vita di una persona, che sia essa donna o uomo. La violenza, che sfocia nell’assassinio, può nascondersi o comprimersi in un sms, un insulto, uno spintone, un pugno. Il cambiamento delle donne e quello degli uomini deve essere l’obiettivo cui la nostra società deve mirare.
È necessario capire, più che sperare che l’altro capisca in tempo, illusione da cui tante donne vengono fuorviate; è necessario cambiare le serrature, per evitare che, “a proprio piacimento”, il potenziale assassino entra e esca dalla vita di una donna: “Non volevo offenderlo, volevo che lui mi lasciasse in pace, a me e al ragazzino … ora mi sono rimaste solo queste chiavi, non mi ricordo neanche cosa aprono …”
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