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Il Ballo

“Il ballo”, racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco

 

Ah, sì, l’età felice, che balla!

 

Al Teatro Ca’ Foscari a Venezia, il primo dicembre 2015, è andato in scena lo struggente spettacolo Il ballo, liberamente ispirato al romanzo breve che la scrittrice ucraina Irène Némirovsky scrisse nel 1928, a soli venticinque anni. La pièce, ideata e interpretata dalla magnifica Sonia Bergamasco, attrice, musicista e regista (Nastro d’argento 2004, Premio Flaiano 2005, Premio della Critica 2012, Premio Eleonora Duse 2014), è frutto di un importante lavoro su un testo che, in versione integrale, lei stessa ha letto per un audiolibro (Emons audiolibri). Un lavoro profondo, autentico, impregnato di sensibilità rispetto al tema del rapporto tra madri e figlie, ai conflitti adolescenziali interni e relazionali, e alle vicissitudini delle diverse età della vita, fino alla difficoltà dell’accettazione dei propri limiti e della propria caducità.

Prodotto dal Teatro Franco Parenti e dalla stessa Bergamasco, è in programmazione nei prossimi mesi a Roma, Milano, Parma.

Nelle note di regia, la Bergamasco riporta una frase della scrittrice: “Un’infanzia che soffre è come un’anima insepolta, che geme in eterno”.

Sullo sfondo delle cinque voci protagoniste, la quattordicenne Antoniette, la madre Rosine, il padre Alfred, la fatua istitutrice inglese, l’odiosa cugina maestra di piano – che escono tutte, miracolosamente, dal corpo etereo della Bergamasco – sembra di udire quel gemito inconsolabile.

Tra le mura domestiche, si può essere “ferite a morte” sin da bambine non solo da coltelli e pistole – come mostra lo spettacolo della Dandini che così si intitola – ma anche da parole e comportamenti feroci degli adulti: il “bruciore di uno schiaffo”, punizioni imprevedibili e incomprensibili, ingiurie, umiliazioni, scenate, che non colpiscono la carne, ma devastano l’anima e la psiche. Giorno dopo giorno, il gemito dell’infanzia che soffre può rimanere inascoltato, con conseguenze devastanti in adolescenza e in età adulta.

Antoniette, Cenerentola senza Fata Madrina, Biancaneve senza Sette nani, Piccolo Principe senza pecora né rosa, è “una bambina di quattordici anni, una ragazzetta, è un qualcosa di spregevole e infimo, come un cane”, figlia di genitori da cui non è amata e ha in mano solo l’arma della vendetta: sabotare quel primo ballo “da ricchi”, con cui la madre anela di fare il suo debutto in società, escludendola: “Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito”. Le grida di disperazione e protesta di Antoniette, inascoltate, sono soffocate dal telo di nylon che le ricopre il volto: “Vorrei morire. Dio, fammi morire … Santa Vergine, perché mi hai fatto nascere in mezzo a loro? Puniscili, ti prego … Puniscili, e poi muoio contenta … […]

Probabilmente sono tutte balle, il buon Dio, la Vergine, balle come i buoni genitori dei libri e l’età felice …”. Si potrebbe forse parlare, a questo punto, di legittima difesa? Per la scrittrice, che racconta la sua storia, le sue armi sono la scrittura e la creatività, che non la salveranno, purtroppo, da una morte feroce ad Auschwitz, a trentanove anni, per le sue origini ebraiche.

“Il ballo”, ha dichiarato la Bergamasco “è una storia che inscena un conflitto. Nell’egoismo della madre di Antoinette, nella sua indifferenza ai dolori provati dalla figlia, c’è un conflitto fra generazioni, colto nel momento in cui l’Europa sprofonda verso il baratro. Nel rapporto fra le due donne, oltre all’evidenza della ferocia della madre, talmente chiara che non c’è neppure bisogno di parlarne, l’attrazione più potente è il rispecchiamento delle due figure.

La figlia si rispecchia nella madre, e la madre vede se stessa attraverso la figlia. Questo è per me il dato più affascinante e allo stesso tempo il più terribile, nella storia. Il sentire che queste due figure non sono separate da questa ferita, ma sanno invece di appartenersi”. Un’appartenenza che non si può definire legame, ma nodo scorsoio, legatura, che impedisce lo sviluppo armonico della personalità e del processo d’individuazione-separazione.

La Bergamasco è già in scena quando gli spettatori entrano nel teatro, raggomitolata su un divano, immobile, indossa una tuta bianca, intorno a lei, sulla scena, solo specchi di ogni misura, coperti di teli di nylon. Dopo qualche minuto di silenzio quasi sacrale, le luci si abbassano per seguire illuminando, di lì a poco, i vari personaggi, creando un’atmosfera onirica avvolgente. I teli verranno sollevati, strappati, usati per avvolgersi il corpo, via via a disvelare una realtà sempre più cruda e crudele oltre le opache apparenze, mentre le immagini riflesse permettono di vedere una scena diversa a seconda dello specchio su cui si sofferma lo sguardo dello spettatore.

Con Il ballo Sonia Bergamasco mette in scena quello che si può definire un vero e proprio esproprio della possibilità di vivere l’infanzia e l’adolescenza in modo sufficientemente sereno, che compromette l’evoluzione dell’identità dell’individuo, connessa alle mancanze di figure genitoriali adeguate al proprio ruolo. Mette in scena il bisogno d’amore, di cure e attenzione del bambino e dell’adolescente e le conseguenze dell’odio che sedimenta sull’incomprensione, l’invidia, l’abbandono, l’incapacità di offrire un posto in cui vivere a chi si è messo al mondo. Un dramma senza tempo e senza luogo, poiché in ogni tempo e in ogni luogo, tragicamente universale.

Per sorridere stretta al seno materno, nell’illusione di essere vista, amata, desiderata, Antoniette è costretta alla distruttività: “Non ho altri che te, bambina mia …”, le sussurra la madre, ignara. È ancora una tragica balla … Antoniette lo sa.

 

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